Il Diego che è in me

Se sei cresciuto in un paesino italiano negli anni 80 difficilmente il calcio ti è stato estraneo. E il calcio ad un certo punto si chiamava Diego Armando Maradona. “Se crede Maradona”. “Sembrava Maradona”. “È arrivato Maradona!” Di espressioni di questo tipo era ed è pieno il calcio italiano, quello dei campetti come quello delle categorie più importanti.

In questi giorni ho provato a riannodare il filo dei ricordi, per provare a capire perché tante persone come me sentano oggi la mancanza di Diego, qualcosa di impossibile, una strana sensazione di shock. E la prima immagine che ho di Maradona è quella sulla copertina dell’album di figurine Panini 1984-85.

Non sapevo nulla di lui, né della squadra da cui era scappato in modo burrascoso, il Barcellona, né tanto meno dell’Argentina, il suo paese. Ma sapevo che lui era uno dei calciatori stranieri presenti nel campionato italiano. In quel campionato c’erano due stranieri per squadra; erano stati riammessi da poco nella Serie A, e la copertina dell’album ne metteva in mostra solo uno per formazione, un uomo con passaporto, un campione per ognuna delle 16 squadre di quel calcio lento e falloso, ma che oggi ci appare più puro e umano. Non a caso attendevamo le 18.00 per vedere i goal, a 90° minuto, condotto da Paolo Valenti. Poi, tra l’insalata e il pollo arrosto della domenica sera, circondato dal calore di zii e nonni, aspettavamo la Domenica Sprint. E la sigla di queste due trasmissioni valeva già l’attesa.

Nel campionato 1984-85 giocarono campioni internazionali straordinari. Falcao, Rumenigge, Zico, Platini, Hateley, Socrates, Souness. Ma anche lo svedese Stromberg, il brasiliano Dirceu, il danese Laudrup. E ancora, il grande Junior nel Torino, lo Jair, neanche parente di quello della Grande Inter, nella Cremonese, il Barbadillo dell’Avellino, forse il primo giocatore peruviano in Italia. E poi Hans Muller, il nazionale tedesco che lasciò Milano per accasarsi a pochi chilometri, sul Lago di Como e Briegel, il terzino teutonico che condusse il Verona di Osvaldo Bagnoli, una provinciale, al suo primo e unico scudetto. Ero maniaco di album Panini e quelle figurine mi permisero di conoscere origini, ruoli, goal, carriere di grandi campioni e umili gregari. Tra i tanti campioni ci fu il giovane Diego Armando Maradona, che non era ancora diventato Maradona, “el Diez”. Quello lo diventò un paio di anni dopo, in Messico. Mentre l’Italia di Bearzot tentava invano di riesumare lo spirito del Mundial 82, Diego scriveva le più famose pagine di storia del calcio. Il goal in dribbling da metà campo, il goal beffardo con la “mano de dios” e l’immagine di un bambino con la fascia da capitano che alza al cielo la coppa più importante. A lui gli argentini devono tanto, come la Spagna a Picasso, la Germania a Goethe e l’Italia a Leonardo. Tanto che oggi il suo vice di allora, Oscar Ruggeri, personaggio pubblico e televisivo che si ammira e si ascolta sempre volentieri su YouTube lo ringrazia per gli undici anni di nazionale insieme, per l’amicizia di una vita e soprattutto per averlo fatto entrare nella storia.

Da quel momento Diego è entrato nella vita di tutti coloro che amano questo sport, il calcio. Le sue prodezze, le sue gioie, le sue avventure e le disavventure sono diventate quelle di cui parlare, su cui dividersi e discutere. Perché Maradona è stato un leader, una persona che se era nei paraggi avrebbe attirato l’attenzione anche delle zanzare. Una sensazione strana, rara. Una sensazione che forse nasce dal coraggio di quel bambino, cresciuto nella povertà e che da 15 anni in poi ha iniziato ad affrontare le proprie sfide e le proprie debolezze con gesti e azioni di coraggio, fino a mettersi sulle spalle i problemi di un popolo, di uomini e donne che lo idolatravano per averli fatti sentire i primi, i più importanti al mondo; fino a far parlare della sua vita burrascosa, a risollevarsi e a ricadere costantemente, come ogni essere umano, come ogni infante, catalizzatore di attenzione, troppo spesso anche morbosa. Mago del football, tanto coraggio e il nostro essere eterni fanciulli, questo è stato per me Diego.

Link all’articolo pubblicato su Gli Stati Generali

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